Intervista al grande oncologo: «Vive a lungo e felice chi non smette di amare, di pensare e di agire»
Veronesi e l’amore. Nel 1921 gli ultracentenari in Italia erano 49, nel 2004 erano 7.700. La vita si è allungata molto nell’ultimo secolo, ed è un bene. E per invecchiare serenamente non basta aggiungere anni agli anni, bisogna fare in modo che siano di qualità. Ma una longevità felice è possibile? La ricetta del grande oncologo Umberto Veronesi, che a Venezia sul tema ha organizzato la Conferenza The Future of Science (19-21 settembre), si fonda su tre fattori. Mai smettere di pensare e agire, ma la chiave di tutto è l’amore.
Le frontiere della longevità si sono spostate. Professor Veronesi, sappiamo molte cose, ma sappiamo perché invecchiamo?
La durata della vita si è allungata principalmente grazie ai progressi della scienza. Negli ultimi cento anni abbiamo assistito a uno straordinario balzo in avanti della medicina, che ha ridotto la mortalità neonatale e ha aumentato la capacità di curare con efficacia. Vaccini, antibiotici, trapianti d’organi, dialisi, terapie anticancro hanno fatto crollare la mortalità, mentre migliori condizioni igienico-sanitarie, la bonifica delle acque e, in parte, dell’ambiente, e una migliore alimentazione hanno ridotto l’incidenza delle malattie, spostando sempre più in là i limiti della longevità. Vorrei fare però subito una precisazione: esiste un’età del corpo e un’età della mente. L’invecchiamento del corpo è inevitabile perché, anche in assenza di malattia, le cellule si usurano; l’invecchiamento della mente invece si può, se non evitare, almeno controllare, perché le cellule cerebrali si nutrono di conoscenza e dunque se noi le alimentiamo con il sapere, continuano a rimanere attive. Per questo l’età di una persona è quella della sua mente e non quella del suo corpo.
E dunque è la nostra mente a dare qualità a una vita che si allunga?
Esatto: la misura della vecchiaia viene dal pensiero e lo stesso vale per la sua qualità. Bisogna nutrire la mente.
Come si nutre la mente?
Leggere, dibattere, scrivere il proprio diario o, se si riesce, poesie, partecipare agli incontri pubblici, andare al cinema, a teatro e alla mostre d’arte. In una parola avere idee e quindi pensare al futuro. Se da anziani si guarda soltanto indietro e si sfoglia l’album delle fotografie del passato, si perde lo sguardo sul domani. La bussola dev’essere orientata al futuro per immaginarlo e prevederlo, per quanto sia breve il suo orizzonte. Le nostre idee non sono solo uno strumento di longevità, ma rappresentano anche la nostra immortalità terrena. Il nostro corpo muore, ma le nostre idee sopravvivono a noi, come diceva Socrate. Non bisogna quindi mai stancarsi di pensare, per noi e per gli altri. Ecco un altro punto importante per la qualità della longevità: occorre rimanere legati agli affetti profondi, partecipare alle decisioni ed essere sempre presenti per coloro che amiamo.
Lei lo ha scritto: l’amore è il miglior motivo per essere attaccati alla vita. L’amore come antidoto o come motivazione?
Come motivazione, senza dubbio. È scientificamente dimostrato che l’amore è scritto nel nostro Dna, che segue tre imperativi per la conservazione della specie: sopravvivere, riprodursi e poi morire. Biologicamente dunque tutto ruota intorno all’amore: ci vuole amore per se stessi in modo da prendersi cura di sé, amore verso un altro individuo per procreare, amore verso l’umanità per vivere in pace. Senza amore non c’è vita. L’odio e la violenza sono quindi innaturali per l’uomo. Sono errori o reazioni a situazioni di pericolo o grave difficoltà.
È vero che una bambina nata oggi può sperare di raggiungere i 102 anni? E in quali condizioni vivrà?
Sì, è vero. Questa è oggi l’aspettativa di vita in un Paese avanzato e le condizioni degli anziani del futuro saranno non diverse da quelle di oggi; anzi, probabilmente migliori perché avanzeranno le nostre conoscenze e miglioreranno i nostri interventi sulla salute e sull’ambiente.
Che cos’hanno di speciale i giapponesi di Okinawa, la popolazione più longeva del mondo? Lei li cita spesso.
A Okinawa hanno adottato due regole. La prima è «ishokudoghen», che significa «il cibo è una medicina». Un principio antico, che era già di Ippocrate, ma che gli abitanti hanno interpretato in senso vegetariano, adottando una dieta basata su frutta, verdura, soia e i suoi derivati, riso, pesce, il tutto integrato con alga konbu. La seconda è «yuimara» che indica il senso di appartenenza alla collettività e la partecipazione attiva alla sua vita. Nell’isola giapponese gli anziani sono i saggi e come tali sono rispettati e onorati come coloro a cui i giovani si rivolgono per avere consigli ed esperienza di vita.
Lei ha detto: vive a lungo chi vuol farlo. Ha una ricetta personale?
Ho spiegato in che senso la vecchiaia è una questione di volontà e mi riferisco soprattutto all’impegno per mantenere giovane la propria mente. Per quanto riguarda me, premetto che io mi ritengo un uomo fortunato. Sono saltato su una mina e sono vivo, sono stato in guerra e sono tornato a casa, sono rimasto orfano di padre a sei anni e ho vissuto anche in povertà e carestia e sono sano, sono stato un pessimo studente a scuola e mi sono laureato a pieni voti con lode, ho faticato sempre, ma ho trovato sul mio cammino uomini e donne che mi hanno valorizzato e aiutato moltissimo. Detto questo, credo la mia buona condizione sia legata anche al mio modo di vivere: mangio poco e vegetariano, consumo un pasto al giorno alla sera, digiuno almeno una volta alla settimana. Mentalmente sono inguaribilmente curioso e non ho mai smesso di studiare, avere dubbi e ricercare. Continuo a suggerire studi e sperimentazioni verso le aree grigie della medicina, e continuo a pensare a nuove vie e nuove mete per la lotta al cancro.
Il successo è un buon antiossidante?
Un uomo fortunato non è necessariamente un uomo di successo. Avere successo significa raggiungere un obiettivo, e io non ho raggiunto l’obiettivo della mia vita: 50 anni fa, quando ho scelto di essere oncologo, ero convinto che avrei chiuso i miei occhi sapendo che il cancro era sconfitto. Così non sarà, perché il cancro oggi è ancora qui. Certo, posso dire che con i miei studi e il mio impegno totale ho contributo molto a preparare la spallata finale a questa malattia, che mi aspetto fra qualche decennio. Ma io non vedrò la soluzione definitiva e quindi non vivrò il mio successo. A questo punto si apre la discussione se davvero il successo sia necessario per dar senso alla vita di una persona oppure no. È un discorso che porterebbe lontano, ma io credo che comunque il successo non aiuti la longevità. Contano l’equilibrio interiore e la consapevolezza di aver fatto e continuare a fare tutto ciò che la nostra intelligenza ci permette di fare. Questo sì.
Il nostro sistema, se da un lato ci permette la longevità, dall’altro suscita il terrore della vecchiaia. C’è la spinta a mantenersi (o fingersi) sempre giovani e belli, seducenti, non rottamabili. Come vede questa contraddizione? Dobbiamo accettare il tempo che passa, trovare altre compensazioni alla parziale perdita di efficienza?
È un’ottima domanda e per rispondere parto da una sua parola: rottamazione. Il termine è stato usato in politica come spinta al rinnovamento, ma in sé è denigratorio. Essere rottamato significa aver perso ogni possibile ruolo nella società, esclusivamente in base all’età, perché così avviene per le automobili. Trovo che questo principio sia profondamente sbagliato. Ritengo sia ingiusto decidere il pensionamento esclusivamente in base all’età anagrafica, come se dal giorno di un determinato compleanno la persona non sia la stessa del giorno prima. È un criterio crudele, discriminante e soprattutto obsoleto. Le età della vita sono cambiate e la società dovrebbe tenerne conto. Oggi ci affacciamo al lavoro a 25, 30 anni, mentre prima iniziavamo a 18, e di conseguenza tutte le fasi della vita sociale si sono spostate in avanti. Io sono favorevole a un sistema di pensionamento che tenga conto anche dell’effettiva efficienza e produttività della persona. Andrebbe introdotta un’età a partire dalla quale il pensionamento è facoltativo e viene deciso con l’ente o l’azienda per cui si lavora, in base al ruolo che ciascuno esercita e al suo progetto di vita. Nel mondo ci sono già dei modelli che realizzano questa filosofia. In ogni caso è importante che anche dopo la pensione si mantenga un’attività: artigianale, artistica, produttiva, di servizio, basta che sia utile per la società.
Qual è il messaggio che volete lanciare con l’edizione di quest’anno di The Future of Science, dedicata alla longevità?
L’edizione del programma The Future of Science, promosso dalla mia Fondazione insieme alle Fondazioni Giorgio Cini e Silvio Tronchetti Provera, sarà dedicata al tema della Longevità. Devo precisare, però, che non si tratta di un convegno scientifico in senso classico, di un incontro fra scienziati. L’obiettivo di The Future of Science è convocare a Venezia esperti all’avanguardia che si confrontino con il pubblico, vale a dire la gente, i giovani, gli studenti, i professionisti che operano in ogni settore. Vogliamo avvicinare la scienza alla società diffondendone la cultura. Il messaggio scientifico principale che vogliamo condividere in questo caso, oltre alla necessità di coltivare il pensiero, è che la durata e la qualità della vita sono legate alla caloric restriction, vale a dire la riduzione delle calorie quotidianamente assunte, e alla scelta di alimenti che contengano molecole protettive dalle principali malattie, fra cui il cancro.
La longevità, più che un costo, può essere una ricchezza per la società?
Certo, lo è se la persona è produttiva. Non mi riferisco solo a lavori in senso classico. Penso a quanto una persona della terza età può contribuire per esempio in attività no profit. Ovviamente non si può negare che esista un costo sanitario legato alle malattie, che invecchiando inesorabilmente aumentano. Anche il cervello va incontro al decadimento fisiologico ed è esposto a malattie neurodegenerative come Parkinson o Alzheimer. È vero che la longevità impone un ripensamento del sistema sanitario e sociale.
Dia un consiglio a chi ha paura di invecchiare.
Credo di averne già dati molti in questa intervista. Riassumerei dicendo che la longevità è un patrimonio, a patto che vogliamo che lo sia.
Fonte: oksalute e benessere.it